Un mondo a bassa risoluzione
Note a margine del libro di Massimo Mantellini
Questo saggio è stato premiato dall’IRSE in occasione del concorso Europa e Giovani con il Premio speciale Università 2019.
“Esiste quindi una generazione a bassa risoluzione? Io credo di sì. Molti segni sembrano confermarlo. Si tratta di un gruppo trasversale, con scarse connotazioni anagrafiche, cresciuto a cavallo dei due secoli, dentro i cambiamenti epocali indotti da internet. Nei venticinque anni fra 1990 e il 2015 (e poi ovviamente anche oltre, fino a oggi) le tecnologie personali hanno modificato radicalmente il nostro approccio con la profondità, con le informazioni, le relazioni sociali, i mercati e la cultura.” [1]
Nel capitolo conclusivo della sua trattazione, Mantellini cerca di delineare, quel gruppo che, secondo la sua teoria, ha scelto di “rallentare e di ridurre le proprie aspettative”.
Questo gruppo anagraficamente trasversale tende però inevitabilmente a unire, all’interno di un aggregato demografico così definito, due componenti eterogenee: da una parte chi ha osservato la nascita della rivoluzione digitale, vi si è di anno in anno progressivamente calato all’interno e ora vive lo scorrere incessante di questi cambiamenti; dall’altra chi è cresciuto congiuntamente a queste cardinali trasformazioni, non ha conosciuto una realtà precedente ed è nato con il computer in camera e il cellulare in tasca.
Questa divisione rivela una bassa risoluzione a due velocità e una conseguente difficoltà tra le due parti prese in analisi di connessione, di comprensione e di comunicazione reciproca. Considerando i periodi maggiormente significativi nella formazione e nella definizione di ognuno di noi, cioè l’infanzia e l’adolescenza, e il ruolo che queste fasi hanno nel delineare la nostra identità e nell’influenzare le sfumature della nostra personalità, emergono le differenze tra i due gruppi presi in esame. Tenendo infatti in considerazione la sostanziale rilevanza assunta dal contesto sociale, culturale e storico che fa da sfondo a questi anni della nostra vita, da una parte si posizionano coloro che hanno vissuto un periodo di formazione completamente alieno ad internet e al digitale, educati dai racconti della Seconda Guerra Mondiale e figli di una grande floridezza economica e di una diffusa rinascita culturale; dall’altra i bambini che, fin dai primi anni di vita, giocano sul tablet dei genitori, crescono con i video di Youtube e impattano, sin dalle scuole elementari, con l’ansia di omologazione legata all’iscrizione a Facebook e ad Instagram.
Queste forti discrepanze nelle dinamiche di approccio al mondo digitale all’interno dei processi formativi dei due aggregati generazionali si rivelano quotidianamente: in un articolo di Politico scritto da Ben Schreckinger[2] viene raccontata l’intervista al primo responsabile dei social network di Donald Trump, Justin McConney, il quale descrive il primo approccio dell’attuale Presidente degli Stati Uniti d’America a quello che diventerà il suo principale mezzo di propaganda politica: Twitter. McConney racconta che Trump, in prima battuta, definì il social network come “quelle cose che usa Obama” e che, per apprendere come postare autonomamente un tweet, egli necessitò di 2 anni mentre, lungo tutto il periodo precedente, il controverso imprenditore telefonava anche in piena notte al suo social media manager per qualunque faccenda legate al mondo della comunicazione digitale.
Ad esemplificazione di quanto siderale sia la distanza che si sottolineava precedentemente tra i due gruppi, in contrapposizione all’articolo appena citato, cattura l’attenzione lo scritto, pubblicato sulla testata online Wired, di una esperta di linguistica, Gretchen McCulloch[3]. Utilizzando una sua ricerca la studiosa riflette riguardo al modo con cui nel mondo contemporaneo i bambini si approcciano alle interazioni relazionali offerte dall’universo digitale, scoprendo che essi imparano a comunicare tra loro attraverso gli emoji ancora prima di sapere leggere e scrivere, e domandandosi di conseguenza quali inediti effetti questo fenomeno può avere nei loro processi di apprendimento.
Emerge ora, sia nelle modalità che nel vigore, la sostanziale differenza con cui il progresso tecnologico ha impattato contro la vita di chi può venir pienamente considerato “figlio” della rivoluzione digitale e di chi invece ha semplicemente osservato i cambiamenti avvenire: i primi sono coloro che, più di chiunque altro, stanno subendo le trasformazioni in atto e che stanno lentamente perdendo, per molteplici cause, fondamentali prassi e concetti essenziali per l’essere umano; diviene di conseguenza indispensabile una profonda riflessione sui cosiddetti digital natives.
La decisione di abbassare vertiginosamente le nostre aspettative e di smettere di cogliere le molteplici opportunità che il mondo moderno offre, cioè la bassa risoluzione così come viene concepita da Massimo Mantellini, si manifesta al massimo della sua pericolosità proprio nel gruppo prima definito con conseguenze preoccupanti: nascere successivamente alla rivoluzione digitale rischia di erodere le potenzialità delle future generazioni. Perchè?
Riflessione a Bassa Risoluzione
“Sovente, gli uomini trovano di aver interesse a non pensare o non hanno l’energia e la costanza intellettuale occorrenti per pensare sul serio. Ma se pensano, vincendo gli ostacoli pratici che si frappongono al pensare, possono giungere al vero.” [4]
Riflettere non è un impulso naturale, la riflessione non è un atto che scaturisce istintivamente. “Pensare sul serio”, come scrive l’antifascista Leo Valiani nella sua opera scritta in commemorazione di Benedetto Croce, è uno sforzo che necessita dedizione e serietà.
La riflessione ha origine nella introspezione, cioè da quella azione endogena che porta il singolo ad analizzare avvenimenti ed informazioni vissuti o recepiti precedentemente e che necessitano di tempo per essere metabolizzati e rielaborati. Nel momento in cui la densa realtà esterna della quotidiana modernità cessa di assalire per qualche istante ognuno di noi attraverso i suoi continui stimoli, il singolo può rallentare la sua corsa contro il tempo e coltivare l’analisi e la selezione qualitativa di quella mole infinita di dati a cui siamo sottoposti ogni giorno della nostra vita. Tuttavia, in un mondo avvolto dalla frenesia e dall’urgenza, le opportunità poiché questo processo accada sono limitate al minimo: le poche occasioni si riducono a quei momenti di transizione giornaliera in cui non stiamo compiendo nessuna azione particolare, in cui stiamo attendendo qualcosa o non siamo impegnati in faccende che occupano la totalità della nostra coscienza.
Questi preziosi attimi, fondamentali per la creatività e per il nostro equilibrio interiore, vengono progressivamente fagocitati da una delle più potenti dipendenze di massa della storia dell’umanità: la sempre più discussa “smartphone addiction”.
Mantellini scrive: “per qualche ragione che non comprendo uno dei valori meno apprezzati del nostro tempo è il silenzio” [5]. Oggi per esso non vi è più il tempo, ma soprattutto non vi è più, né all’interno né all’esterno di ognuno di noi, lo spazio: anche nell’angolo più buio della Terra l’uomo può essere raggiunto da infiniti e incessanti stimoli.
Messaggi, news, mail e notifiche incrinano la concezione tradizionale dell’hic et nunc: i telefoni cellulari di ultima generazione permettono a chiunque in ogni momento della sua giornata di fuggire, di distogliere il proprio focus dal qui e dall’ora e di non rimanere mai in quella solitudine interiore essenziale per l’esistenza di ogni essere umano. La realtà unitaria a cui si è sempre stati incatenati non è più concepibile come in passato poiché in ogni instate si può scegliere, in linea con la bassa risoluzione dei nostri tempi, di andarsene. Ma dove è che ci sposta? Mantellini, facendo riferimento alla breve opera “Un etnologo al bistrot” di Augè[6], ci parla di un altrove
“intermedio, supplementare, un posto differente da quello da cui siamo partiti, così come da quello verso il quale siamo diretti. L’altrove come intermezzo, come approdo temporaneo”.
Ed è rincorrendo la fuga verso questo non-luogo che crolliamo vittime di apatiche anestesie, assenti a noi stessi per ore davanti a uno schermo, sprecando ciò che è più importante nella vita di ogni uomo: il tempo. L’uomo moderno si rivela così succube nei confronti di questo perpetuo tentativo di evasione anche nei momenti teoricamente piacevoli, per esempio in gruppo con gli amici. Affiora così in superficie la estrema difficoltà con cui, durante quei momenti di transizione giornaliera precedentemente descritti, dovremmo riuscire a concedere del tempo a noi stessi e all’introspezione.
Considerando alla stregua di un’utopia la riflessione indotta dall’esterno, la bassa risoluzione con cui proviamo a conoscere noi stessi e ad elaborare idee è figlia di quella che è stata definita una “cultura della distrazione” [7]: nemmeno gli istanti prima di dormire sono concessi all’auto-analisi, consumati anch’essi dall’invasiva e continua richiesta di attenzione che avvertiamo pervenire dal nostro smartphone.
Chi, se non i giovani, soffre maggiormente di quest’isteria collettiva? Chi, se non gli adolescenti contemporanei, ha minor strumenti per confrontarsi e limitare questa pervasiva dipendenza?
E’ quindi facile constatare quanta sterilità sia insita nelle continue affermazione di quella parte di adulti che, sempre pronta a puntare il dito, critica incessantemente gli usi consolidati tra le componenti più inesperte e immature della popolazione, mentre inevitabilmente fallisce nel tentativo di trasmettere il ruolo fondamentale che la riflessione ha sempre ricoperto nella storia umana.
Cultura e Bassa Risoluzione
“Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono;” [8]
In questa lettera destinata ad un amico fiorentino del 1513, l’autore de “Il Principe” regala ai posteri un caldo dipinto della sua quotidianità: egli racconta della giornata trascorsa in compagnia di alcuni taglialegna, delle ore in taverna passate a giocare a carte, per poi concludere descrivendo con molta serenità la sua maniera di terminare il dì appena vissuto: seduto al suo scrittoio in compagnia degli “antiqui huomini”.
L’effetto che la missiva, scritta più di cinquecento anni fa, suscita nel lettore contemporaneo ha il potere di far affiorare alla mente un concetto alla base del sapere umano: cioè che la cultura sia primariamente quotidianità.
La realtà postasi innanzi alle coscienze dei grandi uomini, che nel senso comune vengono ritenuti degni di essere studiati, era complessa e problematica nelle stesse proporzioni con cui noi proviamo a comprendere quella presente. Essi riuscirono, esprimendo nel migliore dei modi e con invidiabile perseveranza il loro massimo potenziale, a modificare, trasformare e ampliare, ognuno a suo modo, l’orizzonte del pensiero umano. Ogni giorno essi si alzavano dal proprio letto e, con tempi e fini differenti, tentavano di ipotizzare, attraverso la scrittura di romanzi, saggi, dimostrazioni ed esperimenti, soluzioni a situazioni che percepivano come problematiche. Cosa esiste di più umano di questo? Che cos’è la cultura se non il quotidiano tentativo degli uomini di rispondere alle domande che ricoprono il frammentato mondo in cui ognuno di noi nasce? Dimenticare questa concezione del sapere colpisce la ragion d’essere alla base della cultura stessa.
Mantellini definisce la cultura a bassa risoluzione come “sotterranea, parziale e difficile da interpretare; il soggetto emettitore non è più singolo e ben identificabile e si polverizza in mille impulsi elettronici differenti” [9]. Il problema sollevato giustamente dall’autore è la frammentazione del soggetto emettitore, il quale smette di essere percepito come umano ed unitario, e da cui sorge facilmente una più ampia disumanizzazione della cultura. Si origina così il paradosso per cui essa si trasforma pericolosamente in pura e fredda nozionistica, mentre vertiginosamente aumenta il disincanto delle nuove generazione nei confronti del sapere.
Si prenda come esempio la celebre Wikipedia: nata con l’obiettivo di ordinare in rete tutto lo scibile umano attraverso uno sforzo comune, dando così ad ogni persona la possibilità di usufruirne, essa oggi fornisce immediata risposta ad una qualsiasi delle nostre quotidiane domande.
Ideata con queste utopiche finalità, gli effetti dell’enciclopedia online si sono rivelati costernati di insidie: una realtà costellata di punti interrogativi diviene improvvisamente cosparsa di banali e incomplete risposte. La facilità con cui ogni nostra minima lacuna può essere momentaneamente riempita da una volatile ed effimera nozione, erode la necessità di porsi domande elaborate e di sviluppare risposte personali ed uniche.
Conseguentemente, cosa diviene il percorso scolastico se non una continua imposizione dall’alto di futili teorie e nozioni idealizzate? I concetti, percepiti come non aderenti alla quotidianità, perdono la loro valenza esistenziale e, sospesi di fronte a chi ne viene a conoscenza, perdono una motivazione valida per cui essere interiorizzati. I “figli” del digitale, fin dalla loro presa di coscienza, subiscono un costante bombardamento di risposte preconfezionate, senza che in loro si sia ancor ingenerata alcun tipo di domanda, seguendo un percorso che sfocia inevitabilmente in una accettazione sempre più acritica e passiva della realtà.
Bassa Risoluzione e Stati d’Animo
“Ognuno di noi ha il proprio modo di amare e di odiare, e quest’amore e quest’odio riflettono la sua intera possibilità. Tuttavia il linguaggio designa, per tutti, questi stati con le stesse parole; di modo che dell’amore, dell’odio e dei mille sentimenti che agitano l’anima, esse riescono a fissare solo l’aspetto oggettivo e impersonale. […] Ed è così che non riusciamo a tradurre completamente ciò che prova la nostra anima: il pensiero resta incommensurabile con il linguaggio.” [10]
L’irrefrenabile e vertiginoso progresso degli ultimi decenni ha posto l’essere umano nella condizione di poter soddisfare i proprio bisogni primari attraverso uno sforzo, sia fisico che mentale, di minima entità: possiamo ordinare una pizza attraverso il nostro telefono, possiamo entrare in un bar appena proviamo fame o freddo, possiamo cercare partner attraverso siti d’incontri online.
Nonostante questo nel mondo tra il 2005 e il 2015 il numero di persone afflitte da depressione patologica e distimia sono cresciute del 18.4%, e allo stesso modo assistiamo ad un aumento del 14.9% di vittime di anxiety disorders[11]. Oltre alla crescita demografica mondiale, come spiegare questi numeri?
Dietro alla facilità sempre maggiore nel raggiungere il soddisfacimento dei nostri bisogni materiali, si cela un’angosciante percezione comune di crescente difficoltà nel vivere le dinamiche sociali e comunicative, nella rappresentazione dei nostri stati d’animo e nella comprensione di noi stessi e degli altri. Lo stravolgimento dei metodi di comunicazione e l’immediatezza con cui tutto è divenuto alla nostra portata, la morte dei valori religiosi e del senso che essi davano all’esistenza, la angosciante decadenza del concetto di comunità ben rappresentata dalla malinconia degli appartamenti in cui ognuno di noi non vede l’ora di nascondersi, la pressione sociale e il costante giudizio dei social network, la difficoltà nel definire la propria identità e il proprio ruolo nella società, sono solo alcune delle complicazioni di fronte alle quali l’interiorità di ognuno di noi si è tinta di inedite tonalità emotive: mai come oggi l’uomo necessita di riconcepire esistenzialmente se stesso per autodefinirsi, per darsi una finalità e non dissolversi tra le travolgenti trasformazioni con cui le coscienze contemporanee sono costrette inevitabilmente a fare i conti.
In un quadro così definito, le parole del filosofo Henri Bergson ci costringono ad una riflessione: consapevoli dell’inadeguatezza delle nostre interiorità nel confronto costante con una realtà in continuo cambiamento, emerge la necessità, in questo momento più che mai, di raffinare, sebbene consci della sua inadeguatezza, il miglior strumento che conosciamo per descrivere e comprendere noi stessi e gli altri: la parola. La difficoltà nello scrivere, nel parlare e nell’interpretare testi e discorsi è figlia dell’incapacità di dedicare alle parole la loro giusta importanza e quindi, di andare oltre le parole stesse.
Tuttavia lo spirito del tempo sembra dirigersi nella direzione opposta: la cultura della percezione e del discorso duro e crudo dilaga nei canali digitali. Riflettendo sulle modalità con cui si tende a fare giornalismo al giorno d’oggi, sulla velocità con cui digitiamo ossessivamente nuovi messaggi sui nostri cellulari e sul crollo qualitativo del dibattito pubblico quotidiano, affiora in superficie una palese tendenza: l’idea che la parola si consumi nella immediatezza in cui la si scrive, la si pronuncia, la si percepisce. Constatato il dilagare di questa concezione, si assiste al crollo della necessità di soppesare, di scegliere, di limare e di interpretare ciò che si racconta, ciò che si comunica, ciò che si ascolta, ciò che si legge.
Come possiamo pensare di utilizzare la parola nella maniera corretta, se alle parole non dedichiamo più né tempo né impegno? In questo contesto nascono i “figli” del digitale: generazione sempre meno in grado di adoperare lo strumento con cui l’umanità ha da sempre tentato di spiegare quel che provava e quel che vedeva.
Diviene difficile combattere le difficoltà personali se si è incapaci di descrivere, e quindi di comprendere, i propri stati d’animo; scrive Bergson: “se in questi nostri diversi stati non si vede nulla di più di ciò che il loro nome esprime, se non se ne trattiene che l’aspetto impersonale, si otterrà null’altro che un io fantasma” [12]. Ed è così che la nostra controversa realtà si riempie di giovani fantasmi: incapaci di decifrare il mondo interiore e esteriore a loro stessi, non cercano altro che fuggire altrove.
Conclusione
La staffetta intergenerazionale ricopre un ruolo fondamentale nella storia umana: il passaggio del testimone di genitore in figlio, al cui interno si mescolano usi, valori e conoscenze, è necessario al progredire dell’umanità.
Le ridondanti opinioni di stampo conservatore, critiche nei confronti delle nuove generazioni e che sentiamo riecheggiare continuamente in ogni luogo, non prendono consapevolezza del fatto che, a causa dei radicali cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni, fosse inevitabile che la frattura tra presente e passato si allargasse sempre più di anno in anno.
Si è precedentemente dimostrato che, nonostante gli adulti di oggi abbiano spesso un rapporto quotidiano con il mondo digitale, coloro che hanno subito nel modo più violento e profondo l’impatto con queste trasformazioni sono i giovani: la facilità con cui tutto è, dall’inizio della loro vita, immediatamente disponibile e gli effetti insidiosi che la tecnologia ha causato in ambiti fondamentali per l’essere umano li ha resi inevitabilmente prime cavie di un esperimento pericoloso.
Le difficoltà nel riflettere e nel comprendere noi stessi e il mondo che ci circonda rischiano, col passare del tempo, di sfociare in acque più critiche. Il rischio di ridursi a vivere in una eterna attesa di fuggire altrove per poi cadere in una assopita pigrizia mentale e spirituale, cioè quello stato che potrebbe essere definito come una sorta di ignavia digitale, è concreto: futuri adulti che si riveleranno incapaci di dedicarsi con passione ad un’idea o ad un sogno, di porsi controcorrente quando lo ritengono giusto, di prendere decisioni realmente libere in momenti complessi.
Il lavoro per evitare che queste previsioni si rivelino corrette in futuro è lungo e faticoso: è necessaria la consapevolezza, da parte degli adulti, che ogni richiamo all’età dell’oro, ogni “o tempora o mores” e ogni critica sterile su una presunta degenerazione dei costumi non causi altro che l’allargamento della voragine comunicativa tra i due gruppi.
Le responsabilità che vengono addossate in modo precipitoso ai “figli” del digitale nascondono in profondità un estremo bisogno di una guida che li conduca verso un recupero di alcune prassi e valori intellettuali irrinunciabili. Si rivela dunque necessaria, come mai prima d’ora, l’assunzione da parte delle generazioni precedenti di questo ruolo: affinché gli uomini del domani possano riallinearsi con un mondo che non percepiscono più come il loro, come reale.
BIBLIOGRAFIA
- AA.VV., Benedetto Croce, Edizioni di Comunità, Torino 1963.
- Henri Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaello Cortina, Milano 2002.
- Massimo Mantellini, Bassa risoluzione, Giulio Einaudi, Torino 2018.
CITAZIONI
[1]: Bassa Risoluzione, pag. 125.
[4]: Benedetto Croce, pag. 67.
[5]: Bassa Risoluzione, pag. 85.
[6]: Bassa Risoluzione, pag. 48.
[8]: Lettera a Francesco Vettori, Niccolò Machiavelli, 10 Dicembre 1513, 60–69.
[9]: Bassa Risoluzione, pag. 10.
[10]: Saggio sui dati immediati della coscienza, pag. 106.
[12]: Saggio sui dati immediati della coscienza, pag. 107.
SITOGRAFIA
[2]: https://www.politico.com/story/2018/12/20/oh-no-the-day-trump-learned-to-tweet-1070789
[3]: https://www.wired.com/story/children-emoji-language-learning/
[11]: https://www.who.int/mental_health/management/depression/prevalence_global_health_estimates/en/