Scusa, mi ricordi il tuo nome?

Daniele Bondioli
6 min readDec 6, 2019

--

Un racconto sul cinismo.

Alberto aveva sessantuno anni. Viveva in un paese di provincia dell’Italia meridionale e non usciva mai di casa senza le sue sigarette e il portachiavi che gli aveva regalato sua nipote. Da qualche mese era approdato alla pensione: i suoi colleghi per l’occasione gli prepararono una bella torta e persino il caporeparto lo ringraziò per i quarantacinque anni di impeccabile servizio lavorativo.

La fabbrica in cui aveva lavorato Alberto si trovava a pochi chilometri da casa sua e operava nel campo della siderurgia. Cosa dire della sua etica lavorativa e del suo carattere? Chiunque avesse lavorato con lui non aveva che belle parole da spendere nei suoi riguardi: “che carezza d’uomo!”, sospiravano le giovani dipendenti, sorprese dalla mancanza di becero paternalismo nei suoi atteggiamenti verso le nuove lavoratrici.

In risposta a tutte quelle persone che giudicano la caratura di un uomo dal suo titolo di studio, come se le persone fossero merci da valutare in base alla etichetta che hanno incollata addosso, questa gentilezza d’animo era priva di laurea e di diploma. Alberto fu costretto dalle condizioni economiche dei suoi genitori ad iniziare a lavorare all’età di sedici anni, ma in quarantacinque anni di sudati contributi nessuno lo aveva mai sentito lamentarsi. Sempre puntuale, a lavoro era sempre stato il primo a timbrare il cartellino la mattina e l’ultimo a spegnere le luci la sera; non vi era collega che non ne ammirasse la dedizione e la serietà.

E che dire di lui tra le mura casalinghe? La moglie Francesca non poteva chiedere di meglio. Aiutava in casa, le portava fiori per qualsiasi anniversario, ricordava ogni data importante della loro relazione e, quando la baciava la sera prima di dormire, la osservava ancora come se fosse la prima volta che si sarebbero svegliati tra le stesse lenzuola.

Avete presente quelle persone che, dopo essersi presentate e avervi chiesto il nome di battesimo, aggiungono divertiti, come se servisse a farli sentire importanti: “scusami, non sono bravo coi nomi, mi perdonerai se me lo scorderò”. Passati poi i successivi cinque minuti di chiacchiere di circostanza, smettono all’improvviso di parlare e: “scusami, com’è che ti chiamavi?”. Ecco, Alberto era uno di quei pochi uomini che, ribellandosi al fastidioso cliché, donava indiscriminatamente alle persone l’attenzione che ogni essere umano merita: a partire dallo stagista adolescente fino alla segretaria del reparto collocato dalla parte opposta della fabbrica rispetto al suo, bastava presentarsi ad Alberto una singola volta per essere sicuri che non si sarebbe più dimenticato il nome del suo nuovo conoscente. È semplice ora comprendere il motivo per cui, al momento del suo congedo dal mondo del lavoro in vista di una meritata anzianità, il dispiacere con cui la fabbrica lo salutava era profondamente sincero.

In quei primi mesi di pensione, Alberto aveva deciso di dedicarsi completamente alla sua famiglia: suo figlio lavorava per una multinazionale in centro città fino a pomeriggio inoltrato, motivo per cui era felice di potergli dare una mano. Iniziò così ad aspettare sua nipote ogni giorno fuori dalle scuole medie per riportarla a casa: la attendeva all’uscita dell’istituto con gli occhi ansiosi di incrociare quelli della bambina. Come lo aveva reso orgoglioso il figlio! Nonostante tutte le difficoltà che Alberto aveva affrontato in gioventù, suo figlio aveva invece potuto completare gli studi e trovare un buon lavoro.

Il compleanno di Alberto cadeva agli inizi di novembre. In una piovosa e grigia giornata autunnale, organizzarono per lui un pranzo di famiglia che culminò nel momento del regalo: seduti tutti assieme in salotto, Alberto scartò il suo primo smartphone. “Ora che hai più tempo libero, puoi rimetterti al passo coi tempi!” esclamò Nicola, il figlio, ridendo e indicando il suo ormai preistorico Motorola. Nonostante non avesse mai pensato di comprarsene uno, Alberto era rimasto incuriosito dalla epidemica diffusione che i nuovi cellulari avevano avuto in ogni ambiente da lui frequentato. Con in braccio la nipotina dalle innate capacità digitali, gli vennero spiegate le linee basilari di utilizzo e, per puro gioco e divertimento, lo iscrissero a Facebook, luogo in cui, con suo grande stupore, trovò, già presenti e attivi, la maggior parte dei suoi coetanei. Fu così che iniziò, per distrarsi, ad accompagnare le sue amate sigarette con lo scorrimento impacciato di quella strana interfaccia in cui poteva leggere e commentare i pensieri e le immagini che condividevano con lui i suoi amici. Vederlo con lo smartphone in mano era un divertente anacronismo.

Era ormai inverno inoltrato quando una mattina ricevette la telefonata dal figlio in lacrime: “l’azienda ha deciso di spostare la propria produzione ad Est, mi lasciano in strada”. Dopo avere tentato invano di consolarlo, Alberto chiuse la telefonata pieno di angoscia. Soffriva per il figlio che avrebbe dovuto ricominciare da capo: non riusciva a spiegarselo. Era inconcepibile per lui, vissuto nella stabilità del suo reddito e cresciuto con un’idea rassicurante di futuro, che un qualche lontano imprenditore straniero potesse decidere, senza alcun impedimento, di far crollare la vita delle persone.

Non si era mai interessato di politica, l’aveva sempre ritenuta un ambito adatto a quelle persone abili nel parlare e nell’inganno, incapaci di agire e di lavorare con serietà. Ma quella volta, mentre impacciato scorreva lo schermo del suo cellulare fumando la sua sigaretta, notò alcuni post di un politicante sulla cresta dell’onda mediatica, che con decisione trattava proprio dei suoi connazionali che stavano perdendo il lavoro, citando anche l’azienda in cui lavorava suo figlio. “Ma allora esiste qualcuno che parla davvero dei problemi di noi veri lavoratori!”. Cominciò a seguire tutti i suoi post, non se ne perdeva uno: come gli piaceva la semplicità e la schiettezza con cui parlava, gli altri politici lo avevano sempre e solo confuso. Finalmente iniziava ad avere chiarezza su quello che stava succedendo in Italia.

Passarono alcune settimane e il figlio iniziò a ricevere il sussidio di disoccupazione. Alberto sembrava annerirsi ogni giorno di più: era sgarbato e diffidente, stava cambiando. Passava moltissimo tempo al cellulare, parlava con la moglie solo per insultare qualche politico che secondo lui aveva rovinato l’Italia, e per spiegarle i motivi per cui Nicola aveva perso il lavoro. Qualche volta tornava alla scuola media per accompagnare a casa la nipote, ma gli occhi che la aspettavano non erano più gli stessi: non aspettavano più con impaziente gioia l’uscita dalla porta della bambina, ma notavano con cinismo il preoccupante numero di genitori e bambini stranieri che uscivano dalle classi. Si arrabbiò con se stesso per non essersene mai accorto prima.

La moglie iniziò a preoccuparsi: come poteva il suo Alberto essere cambiato così tanto? Dove era finita la sua instancabile cortesia? Si tranquillizzò, pensando che i primi anni di pensione sono difficili per tutti, il vuoto che si crea fa molta paura. Mentre a casa Francesca rifletteva, Alberto passeggiava per il quartiere. Fumando la sua sigaretta, come al solito leggeva le ultime notizie che il politicante urlava dallo schermo, come un capitano che grida al suo battaglione. In quel momento, venendo dall’altro lato della strada, gli si avvicinò un ragazzo di colore, munito di fazzoletti, accendini e aggeggi di plastica colorata. “Ciao mi chiamo Chinua e vengo dal Senegal, ti va di comprare qualcosa?”. “Non ti devi avvicinare” esclamò “state rovinando la vita di mio figlio e quella degli italiani!”. Con sguardo abbattuto, il ragazzo si allontanò.

Una volta tornato a casa, aggredì la moglie con il racconto di quello che gli era appena successo: “tu non hai idea dell’arroganza con cui si avvicinano! Non hanno il minimo rispetto!”. “Stai calmo, Alberto, spiegami con calma. Come si chiamava il ragazzo?”, Alberto fece come per rispondere, alzò gli occhi al cielo, e, borbottando insulti, si chiuse in camera da letto. Non aveva proprio idea di come si chiamasse.

--

--

Daniele Bondioli

Sono laureato in filosofia a Bologna. Scrivo una newsletter: Autarkeia. Vincitore del Myllennium Award 2020 e del Premio Internazionale Europa e Giovani 2019.