Lei
Un racconto in onore di Pier Vittorio Tondelli
Sono pieno di contraddizioni.
Da piccolo volevo fare l’intellettuale, non il tossico. Andavo davvero bene a scuola. C’era questa maestra alle elementari che profumava di fragole che mi diceva sempre che ero una spugna: dopo aver ascoltato una lezione assorbivo tutto. Come una spugna, appunto. Ogni volta che in un bosco sento odore di fragole mi torna in mente: era bassa e fragile e le piaceva Petrarca. Io ogni volta che provo a leggerlo Petrarca mi inizia a prudere il cervello. Solo che non puoi grattartelo il cervello, se ne sta lì, rinchiuso dentro alla scatola cranica. Tutti amano Petrarca, quindi ci deve essere nelle sue poesie qualcosa di bello. Ma io no, non lo riesco a trovare. Mi succede la stessa cosa con la musica classica.
Sto aspettando che arrivi il Ciccio. Sono in questo parco vicino alla Cineteca, dove fanno i film in lingua originale. Bologna è così intellettuale. I film con il doppiaggio sono per gli zotici, per quelli che non capiscono «che la voce dell’attore è fondamentale nella recitazione». La Franci me lo dice sempre con il suo tono saccente da francese con la baguette. Non è molto bello questo parco. Ci sono cani ovunque e ragazzini che si fumano le canne. Ma la polizia ci passa poco spesso, quindi io e il Ciccio ci becchiamo sempre qui. Ogni volta che attendo Lei, mi iniziano a prudere gli avambracci. Il problema è che gli avambracci a differenza del cervello posso grattarli, e allora li gratto anche troppo fino a farli diventare talmente rossi che sembra che il sangue nei capillari stia per esplodere fuori. Penso che il mio corpo mi odi a morte. E io ricambio.
Il Ciccio è sempre in ritardo. Che voglia. Non lo sopporto, il Ciccio. Devo concentrarmi su qualcos’altro, se no iniziano a tremarmi le mani. Ed eccole che tremano. Allora pensiamo. Da piccolo. Da piccolo mi affascinavano un sacco di cose. Mi meravigliavano proprio. Studiavo delle cose a scuola che mi facevano rizzare i peli sulle braccia. Avevo questa sorta di capacità, riuscivo a rendere le parole vive, sentivo i fatti e i concetti nella pancia, non tra le tempie. La cosa che mi meravigliava di più era pensare a quanti uomini erano morti sotto lo stesso cielo. Mentre infinite orde di uomini e donne fanno sesso, si sgozzano e si drogano, non c’è nulla da fare, il cielo è sempre lo stesso, imperturbabile. La natura è insensibile, fredda, non si interessa di te. A dire il vero nessuno si è mai interessato di me, tranne la maestra che profumava di fragole.
Però era bella, quella meraviglia. Solo che ora nel parco dietro alla Cineteca mentre aspetto il Ciccio se alzo lo sguardo e guardo in su l’unica cosa che vedo è che oggi c’è proprio un tempo del cazzo. È tutto grigio, c’è talmente tanta nebbia che ho paura di non vederlo il Ciccio quando arriva. Non devo pensare al Ciccio. Penso sia colpa delle droghe in realtà. Ormai sono convinto che il vero me se ne sia andato da tempo, che sia scivolato in una siringa o che qualcuno l’abbia per sbaglio chiuso in una stagnola. Ci sono determinati passi che quando li fai non puoi tornare più indietro. Penso c’entri la chimica o la biologia, la scienza insomma. Quando ti fai, tutte quelle reazioni chimiche che ti fanno stare bene esplodono, e tu godi. Solo che poi ti dimentichi come si fa senza di Lei, e le reazioni chimiche senza sostanze non partono più. E allora non senti più nulla. Non provi più nulla senza di Lei. Cosa dovrei fare allora? Il vegetale? Vivere una vita dello stesso colore del cielo di merda che c’è oggi nel parco dietro la Cineteca?
Per fortuna arriva il Ciccio. Tutta la nebbia si dissolve.