L’antico paradosso della democrazia
Tra metafore platoniche e pandemie globali: il problema della competenza in politica.
Quando si leggono i grandi capolavori dell’antichità, è facile stupirsi per la sensibilità degli autori greci e latini: l’atemporalità delle loro pagine sembra destinata a non risentire dello scorrere del tempo. Nonostante vi siano due millenni a separarci dal mondo delle poleis e dei centurioni, il modo con cui le parole scritte da pensatori di un passato così remoto ci aiutano a comprendere la nostra realtà individuale e collettiva contemporanea è inesauribile fonte di meraviglia.
Nell'inestimabile patrimonio di opere a noi giunto, uno dei temi più stimolanti trattato dagli antichi riguarda la miglior forma politica possibile: molti pensatori rifletterono profondamente su pregi e difetti delle varie configurazioni statuali, alimentando così una feconda discussione sui vari modi con cui è possibile strutturare un rapporto tra governanti e governati.
All'interno di questo dibattito si distingue per influenza e importanza uno dei più celebri dialoghi platonici, la Repubblica. In esso Platone costruisce kallipolis, cioè la migliore città possibile: un paradigma in cielo che le formazioni politiche storicamente determinate devono tentare di imitare. Nonostante i passaggi più conosciuti siano altri, come la celeberrima allegoria della caverna, in una pagina del VI libro Platone delinea una potente metafora, la quale offre una feconda prospettiva con cui guardare agli avvenimenti della stretta attualità.
In queste pagine leggiamo un dibattito tra Socrate (protagonista della maggior parte dei dialoghi platonici) sta discutendo con Adimanto, il fratello storico di Platone, il quale esprime un giudizio sul ruolo che i filosofi hanno nella città, riportando il diffuso pregiudizio che li considera inutili al raggiungimento del bene della comunità, intenti come sono a speculare sui cieli e sull'anima.
È un dato di fatto vedere che quanti si sono dedicati alla filosofia, dopo averne fruito da giovani per completare la propria educazione non l’hanno abbandonata, bensì l’hanno troppo a lungo praticata, per la maggior parte sono diventati uomini assai eccentrici, […] mentre gli altri, che appaiono i più valenti, sono comunque diventati inutili alla città.[1]
Per comprendere il modo con cui Socrate risponde a questa visione del filosofo e del suo ruolo nella città, è necessario definire cosa intenda Platone con filosofo e spiegare il perché essi debbano salire al potere affinché si realizzi kallipolis, cioè la città ideale platonica. Come Platone spiega nel Simposio, il filosofo è colui che si situa a metà tra la sapienza e l’ignoranza. Consapevole di non possedere la verità, il filosofo dedica la sua vita alla ricerca della sophia, la sapienza, senza cessare mai nella sua ricerca. Contrariamente a quello che si è soliti dire, questo non significa che il philosophos, figura incarnata nella sua purezza da Socrate, sa di non sapere niente, ma che egli è consapevole di non possedere la sapienza completa, o come diremmo oggi, di non avere la verità in tasca. Questo gli permette di vivere ricercando, mentre l’ignorante, inconsapevole della sua incompletezza intellettuale, si adagerà nella sua insipienza, vivendo senza esaminare se stesso e gli altri, senza prendersi quindi cura della propria anima, vivendo una vita non degna di essere vissuta.
Nel pensiero di Platone la filosofia, la ricerca della sapienza, deve essere volta alla complessa e difficile conoscenza delle idee, i nuclei di significato oggettivi, costanti e immutabili, propri di un mondo sovrasensibile, a cui fa riferimento l’instabile mondo sensibile. Solo i filosofi potranno governare secondo giustizia e virtù, perché loro guida e modello saranno l’idea di giustizia e l’idea di virtù in sé, che permetteranno loro di guidare una città in una sinfonica armonia in cui ognuno assolve il proprio compito e viene perseguito il bene comune. Semplificando, possiamo quindi ritenere i filosofi come coloro che sono in grado di guidare la città verso il meglio, coloro che possiedono le competenze per aumentare il benessere e la felicità della comunità.
Ora è più semplice comprendere l’obiezione che Adimanto rivolge a Socrate: come è possibile che i filosofi debbano salire al potere, se essi vengono considerati comunemente come inutili dai loro concittadini? Come spesso accade, Socrate risponde attraverso un’immagine.
Immagina dunque che qualcosa di questo genere accada su molte navi oppure su una soltanto.[2]
Socrate paragona la polis, cioè una città-stato democratica come la sua Atene, ad una nave, il cui proprietario, l’armatore nella metafora e il popolo al di fuori di essa, sovrasta per forza e statura qualsiasi altro membro dell’equipaggio, ma risulta però essere piuttosto sordo, miope e possessore di ridotte conoscenza nautiche. Per questo i marinai discutono su chi debba governare la nave, ciascuno pensando che tocchi a se stesso, nonostante non abbiano appreso adeguatamente la tecnica per pilotarla.
Per questo tutti si affollano attorno all'isolato armatore, cioè il popolo che in una città democratica detiene, ritornando nella metafora, la nave, supplicandolo e facendo di tutto perché affidi loro il timone. Nel momento in cui uno ne prende il controllo, gli altri o lo uccidono, o lo ubriacano per poi immobilizzare il proprietario della nave, prendendo il controllo dell’imbarcazione, mentre danno fondo alle provviste, bevono e gozzovigliano.
E navigano com'è verosimile facciano simili capitani; e ancora elogiano, chiamandolo gran navigatore e conoscitore di cose nautiche, chi sia abile nell'aiutarli ad assumere il comando, persuadendo l’armatore o costringendolo con la violenza, mentre chi non si comporta così lo disprezzano come uomo inutile.[3]
In questa situazione, continua Socrate, qualcuno che si preoccupi delle condizioni del cielo e delle stagioni, dei venti e degli astri, qualcuno che sia un vero tecnico del pilotaggio sarebbe additato dagli equipaggi a bordo di navi così organizzate come uomo con la testa nelle nuvole e inutile chiacchierone, ma si potrebbe aggiungere, con un po’ di malizia, anche come un saccente professorone, intento a speculare su complesse conoscenze, distante e disinteressato ai veri problemi del popolo.
Platone conclude sostenendo che la colpa della supposta inutilità dei filosofi non va addossata ai filosofi stessi, ma a chi non sa valersi della loro competenza. Come un malato spontaneamente va dal medico, ricco o povero che sia, chi ha bisogno di essere governato deve recarsi alla porta di chi è capace di governare, piuttosto che lasciarsi persuadere dai demagoghi che i veri capitani siano uomini inutili.
Nonostante la struttura socio-giuridica della democrazia ateniese dell’età classica (V-IV sec. a.C.) fosse molto differente dalle grandi democrazie moderne del XXI secolo, le difficoltà che le dinamiche elettorali comportano sono ancora molto simili a quelle di 2500 anni fa. Come fare in modo che a guidare la nave non vi sia chi adula il popolo, ma chi è realmente in grado di condurre lo stato verso il meglio?
Consideriamo ora, rimanendo all'interno della metafora, un possibile panorama: se il proprietario della nave, il popolo, fosse stato abbindolato dalle suadenti parole di un loquace marinaio, anche se incapace e inesperto alla guida, e all'improvviso scoppiasse una violenta tempesta? Se un fenomeno esterno al controllo dell’equipaggio dovesse rendere estremamente complessa la navigazione e mettesse repentinamente in grave pericolo il benessere dell’imbarcazione?
Le reazioni possibili da parte dell’equipaggio sono principalmente due: lasciare alla guida il demagogo, rischiando che l’imbarcazione affondi, o rivolgersi a chi, tecnico del pilotaggio e possessore delle competenze, possa minimizzare i danni e tentare di oltrepassare gli ostacoli che mettono a rischio il benessere collettivo. Quale potrebbe essere una tempesta di questo genere? Una pandemia globale, per esempio.
Se osserviamo i dati dei decessi e dei contagi (dati aggiornati al 06/20), è impossibile non notare che, tra le grandi democrazie, quelle colpite nella maniera più violenta e tragica dal Sars-Cov2 siano Inghilterra, Brasile e Stati Uniti. Cosa hanno in comune queste grandi nazioni? I marinai al timone: in ognuna di esse attualmente sono al potere uomini che hanno basato la loro fortuna politica sulla ricerca di un nemico, sulla generalizzazione e sulla semplificazione di problemi complessi, sull’adulazione delle virtù nazionali e su una più generale mentalità chiusa e intollerante. La minimizzazione del problema, il farsi beffe di mascherine e dispositivi di protezione e il tentativo di evitare in ogni modo logoranti lockdown, ha portato a conseguenze terribili per la popolazione e in particolare per le fasce sociali meno abbienti.
Quello che è stato definito con una felice espressione come populismo epidemiologico[4] sembra aver causato un crollo del consenso politico attorno ai leader sopracitati, mentre gestioni pragmatiche e efficienti della crisi da parte di politici esperti e dalla riconosciuta competenza sembrano essere premiate dagli elettori, come testimonia l’improvviso boom di fiducia nei confronti della leadership di Angela Merkel in Germania, dopo una sua lunga parabola discendente.[5]
La tempesta che attualmente infuria nelle grandi democrazie del mondo sembra voler evidenziare quello che Platone già notava due millenni fa: la competenza e l’esperienza non sono condizioni sacrificabili in politica se si vuole raggiungere il benessere della comunità. Guidare una nazione è una grave responsabilità, e farlo con leggerezza per soddisfare la propria narcisistica sete di potere porta tragiche conseguenze: mentre gli Stati Uniti hanno decine e decine di migliaia di nuovi contagiati ogni giorno, il Brasile supera il milione e mezzo di casi.
Come molto tempo fa i filosofi venivano tacciati di speculare futilmente su inestricabili temi e di essere inutili alla città, allo stesso modo oggi coloro che tentano di descrivere, comprendere e spiegare le scivolose sfumature dei molteplici problemi contingenti vengono accusati di essere autoreferenziali e di non parlare la lingua del popolo. Nel frattempo i marinai adulano l’armatore della nave elogiandolo e proponendo soluzioni tanto semplici quanto irrealizzabili e deleterie, mentre attraverso una continua banalizzazione della complessità favoriscono una polarizzazione in buoni e cattivi, in noi e loro che aumenta il conflitto sociale e lancia fumo negli occhi dell’opinione pubblica.
La tempesta che imperversa su di noi potrebbe avere un’inaspettata conseguenza positiva: accendere una flebile consapevolezza che ogni elezione sia una grande responsabilità, e che a guidare il timone della nave non vi debba essere il marinaio più eloquente e carismatico, ma chi conosce realmente il mare e le sue insidie.
[1] Platone, Repubblica, VI, 487c-d.
[2] Platone, Repubblica, VI, 488a.
[3] Platone, Repubblica, VI, 488c-d.
[4] https://www.lavoce.info/archives/67614/populismo-fermato-dal-coronavirus/
[5] https://www.ilpost.it/2020/06/27/merkel-coronavirus-europa/