Il colore del rumore

Daniele Bondioli
23 min readMay 21, 2021

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Preferisco volare di notte. Mi piace quando stai sopra alle nuvole e sei avvolto dal buio e ti dimentichi di quello che c’è sotto il tappetto grigio. L’intero viaggio lo passi nel cielo nero in quella sorta di limbo metafisico tra universo e civiltà, e poi a un certo punto attraversi quegli strati di nebbia che da fuori sembrano impenetrabili ma che quando ci sei dentro dubiti che esistano, e vedi le luci. Sto tornando da una città dal nome impronunciabile vicino ad Hannover. Ora stiamo atterrando e infatti le luci appaiono. Luci frenetiche e luci immobili, luci regolari e luci che scompaiono. E vedere tutto quel formicolare da lassù è così piacevole, capisci quanto tutto sia piccolo e che non siamo altro che omuncoli che si muovono isterici su un sottile lembo di terra. Mi fa scordare di essere una di loro. E allora dai un po’ meno importanza a tutto e ti senti più leggera. E non pensi agli ex mariti, al lavoro, ai soldi, all’orgoglio, al tuo essere una cattiva madre. Insomma, è bello volare di notte, atterrare di notte.

Ora l’aereo ha quel sobbalzo che hanno tutti gli aerei quando toccano terra, quel sobbalzo che anche se te l’aspetti e hai già vissuto l’atterraggio di un aereo cinquecento volte nella tua vita, ogni volta ti fa comunque avere un sussulto. Questi ultimi giorni li ho passati in Germania a cercare di convincere quei coglioni della Franz a dare a noi la consulenza. È stato un buco nell’acqua: cinque giorni buttati, ho lasciato mio figlio solo a casa per l’ennesima volta e sono impazzita nel tentare di convincerli. Per fortuna è finita.

Parte l’applauso di rito. Guardo fuori dal finestrino così da evitare gli sguardi entusiasti dei passeggeri felici di essere ancora vivi. In Germania ho dovuto pure andare a cena con quelli là, quelli della Franz. Uno mi dava particolarmente fastidio. Non mi ha molestato, no, ma schioccava le labbra continuamente, come per volere attirare costantemente l’attenzione su ciò che stava per dire. Come se dovessimo ringraziarlo per le perle che stava per vomitare dalla sua bocca da rospo. Non li sopporto, quelli della Franz. Anche l’altra volta non ce l’hanno data la consulenza, ma il mio capo ha detto che non è un bel periodo per i conti dell’azienda e che dovevo andarci comunque. Ovviamente mai che mi mandi in un bel posto caldo, che ne so, Barcellona. No, sempre sti cazzo di paesini sperduti nel nord della Germania. Non è stato comunque orribile quanto la volta che sono stata all’ACS in Norvegia. Lì sì che è stato un incubo. Un incubo dentro a un freezer: fare un lavoro di merda che ti costringe a lavorare con persone di merda, ma a meno dieci gradi di temperatura. Divertente.

Viaggio per lavoro una volta ogni due mesi, più o meno. Sono preoccupata per mio figlio, non mi risponde al cellulare da tre giorni. Probabilmente sono una pessima madre. Per fortuna ormai è autonomo e ultimamente succede spesso questa cosa del telefono, quindi ho smesso di preoccuparmi davvero ogni volta. Fa così: chiama qualcuno di cui si fida abbastanza, gli fa nascondere il suo cellulare in una parte della casa e poi lo lascia lì, fino a quando non c’è un’emergenza o una necessità importante, e allora va a suonare a casa del suo amico per sapere dove gli ha nascosto il telefono. Ha provato più volte a spiegarmi il motivo per cui lo fa, ma ogni volta faccio un po’ di fatica a comprenderlo. Insomma, è anche troppo sveglio. A volte vorrei dirgli di darsi una calmata e usare meno paroloni che se non ti capisce nessuno quando parli tanto vale stare in bagno da solo e fare i monologhi allo specchio.

La coda di persone inizia a scendere dall’aereo. Aspetto sempre ad alzarmi, non capisco mai che fretta abbiano le persone che si alzano immediatamente appena si atterra. Tutta quella fretta per stare in piedi con la testa storta e la schiena piegata sotto ai compartimenti dei bagagli quando potrebbero aspettare seduti. Sono fiera di mio figlio. Quest’estate è stata un po’ dura, mi dispiace che non stia bene. Ho visto i suoi occhi sempre più distanti, sempre più freddi col passare delle settimane. Vorrei passare più tempo con lui, ma non penso riuscirei a capirlo e non so se lui ha voglia di farsi capire da me. E poi devo lavorare, ragazzo, lo so che i vent’anni son duri, ma dobbiamo mangiare. E ho questo lavoro qua, non ho più l’età per rimettermi in gioco, si fa quel che si può con quel che si ha.

Finalmente scendo dall’aereo. Se mi avesse risposto al cellulare mi sarei fatta venire a prendere volentieri. Fuori fa freddo, è già ottobre. Prendo un taxi. Abitiamo fuori città sulle colline dell’Appennino. Non sopporto la città, ci vivevo da piccola e mi dava sui nervi. Ogni volta che andiamo in vacanza e sento delle macchine dalla finestra della stanza di hotel durante la notte mi viene la malinconia. Per fortuna casa nostra dà su una strada chiusa, di notte si sente solo il suono lontano del treno che attraversa una galleria.

Vorrei tornare sull’aereo. Ora sono una delle luci minuscole che vedevo prima. Sento il fastidio che sale fino a irrigidirmi la mascella. Se ripenso ai miei di vent’anni… meglio di no, ho fatto troppe cazzate. Però spero di non essere un adulto medio in questo, sì, dovrei proprio chiederlo a mio figlio, spero di non essere così. La maggior parte dei genitori si scorda di essere stata giovane. Solo a pensare di essermi innamorata a vent’anni di quell’idiota che mi ha rovinato la vita, no, non voglio pensarci. Però mi ricordo tutto. Mi ricordo quando mi sono svegliata e lui non c’era più. Chissà con chi è scappato. Con la troia bionda che lavorava con lui, secondo me. Secondo la Mary con la parrucchiera che, stranamente, ha chiuso il negozio proprio una settimana prima che lui sparisse. Però boh, era bruttina quella parrucchiera, anche se li avevo visti flirtare più volte. Che sia la bionda o la parrucchiera, poco cambia.

Scendo dal taxi. C’è il cancello di casa chiuso. Okay, inizio a preoccuparmi, non ci sono nemmeno le scarpe. Dov’è mio figlio? Nel cercare freneticamente le chiavi nella borsa, mi cade il portafoglio. Lo raccolgo e… la posta. Di sicuro lui non ci ha nemmeno guardato, mica le paga lui, le bollette. Infatti ci sono sei o sette buste. Finalmente trovo le chiavi. «Sono a casa», urlo, «sei qui?». Silenzio. La cosa inizia a farsi parecchio strana, non la definisco preoccupante per convincermi che non lo sia. La cucina, il bagno, nessuno. Camera sua è vuota, le luci sono spente: nella stanza c’è il solito ordine maniacale.

Mi verso un bicchiere d’acqua. Devo ancora cenare e sto per svenire dalla fame. Ci manca che l’abbiano rapito. No, per favore, razionalità. Che sia scappato di casa? Senza libri? Impossibile. Vado a controllare. Manca qualche volume, ma la maggior parte ci sono tutti. Non mi tranquillizza molto la cosa. Devo mangiare. Il frigo è vuoto come la scatola cranica di quelli della Franz. Almeno del tonno ci sarà, e infatti c’è. Prendo un piatto e una fetta di pane in cassetta. Provo a chiamare il suo migliore amico. Non lo sente da quattro giorni. Bene, benissimo. Okay, ora sono ufficialmente preoccupata. Ecco mi tremano le mani come al solito, e rovescio l’acqua. E dove vuoi che vada l’acqua? Sulla posta, ovviamente. Che odio. Prendo le buste per asciugarle un minimo. Bollette, pubblicità, la banca, e questa? C’è una busta con sopra scritto in rosso IMPORTANTE. È la calligrafia di mio figlio. Corro al tavolo. Che ansia, spero non sia un riscatto, non abbiamo un euro.

- Ciao mamma, spero che tu abbia aperto questa lettera prima di iniziare a preoccuparti. Partiamo dalle cose importanti. Sto bene ed è tutto a posto. Ma la storia è un po’ lunga e quindi ho pensato di scriverti anche perché… il mio telefono è lì in casa con te. Ti sto scrivendo questa lettera martedì, e tu dovresti leggerla mercoledì sera, il postino mi ha assicurato di farla arrivare a casa per quel giorno.

Partiamo dall’inizio. Sabato ho avuto una di quelle mattine. Venerdì sera quando sei uscita mi è partita la depressione: la casa vuota, la voglia di far niente, il sentirmi niente, insomma, le solite cose. Penso che per fare grandi cose serva solitudine, ma la solitudine mi costa troppo. Non so se il problema sia che per natura siamo animali politici, ma so che in una polis dobbiamo starci per forza per campare, quindi tanto vale non chiederselo. Vabbè, è finita che ho bevuto qualche sessantasei di troppo. E come al solito quando bevo al posto che migliorare la situazione precipita. Mi consola sempre leggere che moltissimi dei geni del passato amavano la bottiglia. Conferisce all’alcol una sorta di legittimazione, quel fascino che giustifica il tuo essere sbronzo. Senza pensarci ho scritto qualche messaggio alla ragazza mora di cui ti avevo parlato, quella con il bel nome e gli occhi grandi, e ovviamente me ne sono pentito. Poi mi sono messo a cazzeggiare col cellulare, ed ero lì ubriaco che non sapevo nemmeno chi fossi, a muovere quel dito meccanicamente per scrutare nelle vite di persone di cui non mi frega niente. Ero assente. Passano quelli che sembrano venti minuti e… erano le due di notte. Non me ne ero nemmeno accorto. Mi sale ancora la nausea a pensarci. Ho spento le luci della camera con gli occhi lucidi e per fortuna che l’alcol mi seda — ogni notte insonne penso che abbrevi di qualche mese la mia aspettativa di vita.

E la mattina mi son svegliato vuoto, anzi triste, anzi meglio confuso. Ormai conosco quella sensazione perfettamente, ma ogni volta che tento di spiegarla sento di non trovarle l’abito giusto, di non trovare una parola che le calzi bene. Quest’estate è andata come è andata, però grazie che mi hai convinto ad andare dalla psicologa, mi ha aiutato, davvero. Lei mi ha detto che tutte le mattine che mi sveglio in quel modo devo lasciare il cellulare a casa e andare a camminare. Perché quando mi sveglio così non sono solo confuso, ma ho anche la nausea. No, non la nausea dell’alcol, una nausea mentale. Vorrei vomitare il mio cervello, non il CH3CH2OH che ho ingerito. Mi sveglio e mi odio, non so chi sono, sono niente, sono inutile — non sono. E allora vado a far colazione e guardo il caffè salire nella moka, e mi piace quando esce l’aroma e si forma quella schiuma marroncina e per un attimo dimentico tutto e penso che meraviglia il mondo, cazzo. Ma poi mi siedo con i soliti biscotti pannosi che mangio tutte le mattine da dieci anni e riprendo in mano il telefono per leggere notizie di cui non mi frega niente, e ritorna. La nausea. E allora lancio il cellulare contro il muro e spero che si rompa, ma poi corro a raccoglierlo e vedo che si è solo crepato e mi odio, «Secondo te può bastare questo a far passare la nausea?». E sabato mattina era una di quelle mattine, forse anche peggiore di quelle solite. Mi sono lavato i denti e per fortuna che fuori c’era il sole, uno di quei soli di inizio autunno che scaldano abbastanza ma non ti fanno sudare e che quindi sono perfetti. Infatti ho pensato «Perfetto». Mi sono preso dietro Moby Dick, il mio quaderno e la mia amata Pilot. Ma come fa la gente a scrivere con le Bic? Scorrono sul foglio come un’unghia scorre su una lavagna. Sai quanto mi piace l’inizio di Moby Dick, vero? Mi piace così tanto che sto tentando di impararlo a memoria.

Allora sono uscito di casa. Ho pensato che sarei andato dai cavalli sul dirupo, quelli dopo la salita ripida sopra casa. Non mi ricordo se te ne ho parlato: ci sono questi quattro recinti elettrificati per cavalli, quelli limitati dalle strisce arancioni e gialle che da piccolo tocchi per fare quello coraggioso. E i cavalli stanno in questi recinti che sembrano stare in bilico tra due valli, e il sentiero passa proprio lì di fianco. Mi sa che non te ne ho mai parlato, non so perché, è così bello.

Dopo un po’ che camminavo ho iniziato a stare meglio, per forza direi. Respiro aria buona, do un po’ di ossigeno a quei poveri polmoni che mi ritrovo. So che mi odiano, prima o poi mi sveglio la mattina e mi hanno mandato a cagare e se ne sono andati e mi fanno morire asfissiato. Li odio, i polmoni, non posso pensarci senza sentire un brivido. Ma tanto sono il solito ipocrita, mentre scrivo questa frase sto fumando una sigaretta. Fumo troppe sigarette. Comunque.

Finalmente arrivo ai cavalli. Mi siedo e accendo la sigaretta. La scena è questa: sono quattro cavalli, uno per recinto, ma a me piace quello nero. È enorme, possente, fa paura, ma è una paura bella, affascinante. In fondo al dirupo, dietro ai cavalli, ci sono dei grandi campi che non so se siano incolti o meno, di sicuro se qualcuno li possiede non li cura troppo. E ti giuro che lì seduto mi è sembrato di vedere un papavero in mezzo al campo là sotto. Lo so che è impossibile, se un papavero sopravvive fino ad agosto è già un miracolo, ma ero certo fosse un papavero. Mi piacciono tantissimo i papaveri. Hanno il colore rosso delle cose vive e parlano la lingua fragile delle cose belle. Allora ho pensato di scendere nel campo e andare a controllare, sarebbe stato qualcosa di straordinario trovare un papavero in autunno. Non è proprio comodo scendere il dirupo dietro ai cavalli, e mi sembrava pure che quegli equini facessero i furbi e mi stessero pigliando per il culo. Lo sai, non sono proprio agile in queste cose, sarò scivolato due o tre volte nella terra.

Quando finalmente ce l’ho fatta e sono arrivato abbastanza vicino al fiore, ci ho messo poco a rendermi conto che quella macchia rossa non assomigliava neanche lontanamente a un papavero, ma, dai, era lo stesso un bel fiore. Comunque ormai ero sceso, quindi ho iniziato a camminare un po’ per la boscaglia lì a fianco del campo in fondo al dirupo. La cosa più bella dei boschi è l’odore. Ma ero ancora troppo vicino ai cavalli, e continuava a entrarmi nel naso il loro tanfo non proprio dolce. Allora ho pensato che fosse meglio allontanarmi un po’. Gli alberi, d’autunno, hanno il loro affascinante colore, appunto, autunnale che è stato talmente tanto apprezzato che non riesco a trovarci bellezza. È come se le cose belle fossero state definite belle talmente tante volte da talmente tanti uomini che il bello lo devo cercare altrove, nelle cose che hanno visto in pochi, nascoste. Che poi alla fine penso che gran parte della mia depressione derivi dal fatto che siamo troppi uomini. Insomma, mamma, è statistica, è matematica, è scienza: più siamo, più è probabile che ci siano persone più intelligenti, più sveglie, più brillanti — migliori di te. È la follia della quantità.

In ogni modo mi sono allontanato verso la boscaglia. C’era il canto degli uccelli e le solite cose che piacciono a tutti quando stai in mezzo alla natura, ma io non riuscivo a smettere di pensare alla figura che avevo fatto con la ragazza mora con gli occhi grandi. Avevo bevuto e non riuscivo a ricordarmi nemmeno cosa le avessi scritto. E ovviamente la cosa non aiutava il mio umore. Io provo a dirmelo che agli altri non interessa nulla di te e che quindi il loro giudizio non deve tangerti, ma io non ho paura del giudizio degli altri, ma del mio di giudizio. È come se ogni cosa che faccio debba convincere e rendere conto a due persone: a me stesso e al me stesso che giudica me stesso. Raddoppia la fatica.

E all’improvviso ho sentito qualcosa muoversi, mi sono girato e c’era questo capriolo bellissimo. Era di un color marrone rossiccio che mi ricorda il tramonto. Era da solo con la testa nel fogliame e non mi aveva ancora visto. Saremmo stati a pochi metri di distanza. Non riuscivo a smettere di fissarlo. I caprioli hanno degli occhi neri da cane e delle orecchie sproporzionate che sembra che l’evoluzione le abbia strappate a un coniglio enorme e gliele abbia incollate con il vinavil alla testa. Ho fatto l’errore di spostare il peso da un piede all’altro, e ovviamente le foglie secche sotto alla scarpa hanno scricchiolato. Lui mi ha guardato negli occhi (forse era una lei, mi sembra non avesse le corna) ed è scattato via. Non so perché mamma, ma mi sono messo a rincorrerlo. Ed è stato bellissimo. Sono riuscito per qualche minuto a tenerlo sott’occhio, poi è saltato al di là di un fosso e l’ho perso. Avevo corso in preda all’istinto e forse sopravvalutato le mie capacità podistiche. Ho sentito il sapore del sangue in bocca e non riuscivo a calmare il fiatone. Ho pensato che è incredibile l’ingenuità con cui ci dimentichiamo di quanti meccanismi fisiologici debbano funzionare costantemente in sincronia per permetterci di vivere e di dire le nostre cazzate. Ti rendi conto di avere un cuore solo quando corri dietro a un capriolo in preda a un delirio primordiale. Ma vabbè, siamo fatti così. Calmati finalmente i miei polmoni, mi sono seduto a terra. L’odore dei cavalli era sparito. Mi piace stare seduto in posti del genere e pensare a quanto sia distante l’essere umano più vicino. Te l’ho mai detto che vorrei andare in Tibet? Magari quando avremo più soldi.

Ho preso fuori il mio quaderno dallo zaino e ho provato a disegnarlo, il capriolo. Poi però ho iniziato a sentire freddo, lì nel bosco, sudato. Allora mi sono alzato e ho pensato di disegnarlo dai cavalli. E mamma lo so, lo so. Non so come sia possibile. Mi sono perso. Cioè sono andato nella direzione verso cui pensavo stessero i cavalli, ma il bosco invece che sparire, aumentava. E dopo un po’ mi sono detto che avevo fatto già il doppio della strada rispetto a quella che avevo fatto correndo. Mi sono seduto e ho pensato che — non avevo il cellulare — tu eri dall’altra parte dell’Europa — ero nel bosco solo. Quindi non c’era molto da fare. Dovevo trovare un altro bipede come me o una strada o un sentiero, insomma, qualcosa con dei cartelli. E mentre camminavo a caso ho visto su un tronco mozzato l’insetto più bello e assurdo che io abbia mai incontrato. E sono convinto che tutta questa storia sia merito suo. Era lungo più o meno come il mio indice, ed era colorato come una mucca: grigiastro con le macchie nere. Ma la cosa incredibile erano le antenne. Aveva queste antenne che saranno state il doppio del corpo e con la stessa alternanza di grigio e di nero. Era la cosa più simile a un alieno che io abbia mai visto. E volava pure. Ormai avevo seguito il capriolo, quindi quando l’insetto ha spiccato goffamente il volo (con quelle antenne immagino non sia comodo volare) mi sono messo a inseguire pure lui. E poi quando atterrava lo prendevo in mano, lui se ne stava un po’ fermo e poi volava via di nuovo qualche metro più in là. Più lo guardavo più mi sembrava impossibile che esistesse. Sono quei momenti in cui mi meraviglio così tanto che sento la meraviglia nella pancia e mi si rizzano i peli delle braccia. Siamo andati avanti così, io e il coleottero-mucca-capricorno, per un bel po’. Ed era bello quel giochino, secondo me anche lui si è divertito.

E alla fine, a forza di raccoglierlo e inseguirlo e raccoglierlo e inseguirlo, ho incontrato un Golden retriever. Era nero con il pelo ondulato che hanno i Golden retriever. Mi muovevo di corsetta perché non volevo perdere di vista l’insetto, e vedendo che mi avvicinavo in fretta il cane si è spaventato e mi ha ringhiato. Allora l’ho guardato, mi sono seduto per terra sulle foglie e ho iniziato a dirgli che poteva stare tranquillo, che «con quel musino che hai, il massimo che ti faccio sono delle coccole». E penso che lui abbia capito, perché si è avvicinato piano piano scodinzolando e se le è prese tutte, quelle coccole. Aveva il collare. Se l’insetto strano mi aveva fatto dimenticare che mi ero perso, il collare me lo ha ricordato.

Allora ho lasciato che il Golden retriever nero mi conducesse dal suo padrone. E infatti è ciò che il cane ha fatto. Ed è così che ho conosciuto Oreste.

Ho visto questo vecchietto con addosso un pile marrone e dei pantaloni militari. Teneva in mano quella specie di rastrello che serve ad ammucchiare le foglie secche. Teneva gli occhi chiusi e sembrava estremamente rilassato. Il cane gli è saltato addosso appena lo ha visto, scodinzolando. Stavo per presentarmi quando si è girato verso di me senza aprire gli occhi e ha chiesto «Chi hai portato qui da me, Elettra?».

«Salve, mi sono perso, non volevo disturbare, le volevo solo chiedere la strada per tornare ai recinti dei cavalli sulla collina», e in quel momento ho capito che era cieco. La cecità è una di quelle cose di cui tutti conoscono l’esistenza ma di cui nessuno si interessa davvero. «Certo, ragazzo, vuoi un caffè? Te lo spiego». Aveva una barba ispida, il volto rugoso e i capelli bianchissimi. Non mi sembrava molto pericoloso. E poi, mamma, era palesemente cieco. La passeggiata era già stata parecchio strana fino a quel momento, quindi tanto valeva assecondare la cosa fino in fondo. Allora sono entrato in casa sua.

È una piccola casa in pietra grigia. Di fronte all’entrata c’è questa enorme acacia che sarà alta venti metri e che sta perdendo tutte le foglie. Appena superata la porta, ho visto questo salotto incredibile: nel lato lungo della sala c’è una libreria immensa che copre tutta la parete, senza libri. Cioè in realtà è piena di libri, ma appena li ho visti mi sembravano solo vecchie audiocassette. Queste audiocassette riempiono tutti gli scaffali, sono migliaia. Sul lato corto affianco alla libreria c’è una cornice di legno lavorato con dentro una pergamena su cui è scritta in bella calligrafia Corrispondenze di Baudelaire. In mezzo alla stanza c’è una sorta di cassone senza coperchio con a fianco un tavolo. Nel cassone ci sono tantissimi vinili. Sul tavolo c’è uno di quei giradischi anni ’60 che appena li vedi pensi subito a Psycho e a JFK. Con un cenno mi ha fatto capire che potevo sedermi sul divano rossiccio che sta a fianco del cassone coi vinili, mentre lui preparava il caffè. Lui ed Elettra sono impressionanti. Il cane è vecchio, ha quasi vent’anni, ma sembra molto più giovane. Collaborano come se stessero danzando. Il cane sa quello di cui Oreste ha bisogno ancora prima che lui le chieda qualcosa. C’è anche da dire che, anche se sei cieco, stare tutti i giorni nella stessa casa per quindici anni ti rende più facile muoverti.

Mentre ero lì seduto ho iniziato a rendermi conto dell’assurdità del luogo in cui mi trovavo. Allora, in ordine — come fa un cieco a vivere da solo in mezzo al bosco — cosa sono tutte quelle cassette — perché dovresti tenere una poesia appesa a una parete se sei cieco — e chissà come si chiamava quell’insetto assurdo. E più riflettevo e più mi venivano in mente domande. Finalmente Oreste è tornato col caffè, «Allora se tu inizi a risalire il sentiero a destra dell’acacia…», ma a me non interessava più come tornare ai cavalli. Volevo capirci qualcosa. L’ho interrotto «Non si preoccupi… dopo me lo spiega con calma. Le dispiace se facciamo due chiacchiere?». «Se mi dai del tu, volentieri. Quanti anni hai ragazzo, e come ti chiami?». E così è iniziato tutto.

Non posso raccontarti per filo e per segno ogni cosa, questa lettera rischia di diventare un libro. Abbiamo iniziato a parlare e non abbiamo più smesso. La prima cosa che ho imparato è che dei ciechi non sappiamo nulla. Oreste ha una malattia rara che si chiama Amaurosi congenita di Leber. Mi ha spiegato che amaurosis è un’antica parola greca che significa «oscuramento» e che i greci usavano per descrivere le «ombre dei morti». Penso che questo basti a spiegare il nome della malattia. È cieco dalla nascita. Questo vuol dire che non ha mai visto nulla, anzi che non sa nemmeno cosa significhi vedere. Noi pensiamo che un cieco veda il buio, ma non è così, un cieco non vede niente. Lui mi ha fatto questo esempio: «Immagina di essere un pipistrello. Un pipistrello percepisce l’ambiente esterno attraverso un complesso meccanismo di infrasuoni e sonar. Ora, se ti chiedessi di dirmi, come essere umano, quali infrasuoni tu percepisci, non mi puoi rispondere “nessuno” come se tu ne sentissi il “silenzio”. Tu non sapresti nemmeno dirmi cosa significhi percepire degli infrasuoni attraverso un organo che funge da sonar. Ecco. Io non so cosa “vedere” significhi».

Sì, Oreste è più profondo di quello che ti aspetteresti da un vecchietto cieco che rastrella foglie solo in mezzo al bosco. Ha insegnato italiano alle elementari ai bambini tutta la vita. Non è stato molto facile farmi raccontare la sua storia, perché Oreste continuava a chiedere di me. Per tutto il giorno ha voluto sapere chi fossi, cosa facessi, come stessi, cosa pensassi del mondo e della vita. E ogni volta che cercavo di girare su di lui l’attenzione del discorso, quel dannato vecchietto si sfilava dalla domanda con l’abilità retorica di un sofista antico e ritornava al punto di partenza. Mi ha fatto un sacco di complimenti, mi ha fatto stare bene. Era stupito che un ragazzo della mia età si svegliasse la mattina e partisse per una passeggiata da solo per guardarsi intorno lasciando il cellulare a casa. E ogni volta che gli rivelavo un mio interesse, lui iniziava ad approfondirlo e, ti giuro mamma, sa qualsiasi cosa. Ho tirato fuori Moby Dick e lui mi ha iniziato a parlare di «meravigliosi racconti di Melville dalla straordinaria portata esistenziale» che io manco avevo mai sentito nominare. Mi ha fatto sentire ignorante, ma era un’ignoranza bella. Mi ha ricordato la sensazione che provo ogni volta che guardo il cavallo nero possente in cima alla collina.

Siamo andati avanti così fino a sera. Abbiamo pranzato e poi siamo stati a camminare io, lui ed Elettra (il Golden retriever). Io ero elettrizzato. Mi sembrava di avere trovato tipo Talete di Mileto in mezzo al bosco vicino a casa, perdendomi mentre inseguivo un coleottero-mucca-capricorno. Non ci posso ancora credere. E allora mi è partita la logorrea. Lui a un certo punto si gira, mi “guarda” e mi dice che «fare una passeggiata senza ascoltare i colori dei rumori è uno spreco» e che quindi dovevo tacere per un po’. Me lo ha detto così, come se ci conoscessimo da anni e non da qualche ora. Non ho osato dire nulla fino a quando siamo rientrati in casa. Mi è piaciuto tantissimo.

Un suo amico gli porta una o due volte a settimana tutto ciò di cui ha bisogno per sopravvivere. Riesce a cucinare, a pulire, a tenere il giardino in ordine, ad ascoltare musica e a “leggere” libri. E trova anche il tempo di fumare sigari e di sorseggiare bicchierini di amaro. È venuto buio e lui mi ha fatto il piacere di accendere qualche candela (ovviamente non ha lampade elettriche in casa, a cosa gli servono?). Era talmente chiaro che io fossi entusiasta di chiacchierare con lui che non mi ha nemmeno chiesto se volessi restare a cena, lo ha dato per scontato. E dopo cena ha tirato fuori il Sacro Graal degli alcolici, questo amaro che sembra ambrosia distillato da un uomo pelato che abita in paese. È come un Montenegro fatto in casa ma senza quel dolce stucchevole che ti fa stancare di bere. E allora abbiamo iniziato a versare e l’ho incastrato. Ogni sorso di amaro che beveva lo faceva un po’ sciogliere. E alla fine, ormai al terzo bicchiere, l’ho fatto, «Oreste, ma mi spieghi cosa sono quelle audiocassette?», ero sicuro che avrebbe dissimulato la domanda.

E invece, si è messo comodo sul divano, ha aperto il cassetto del comodino e ha tirato fuori un sigaro grosso come il mio polso. «Mi sa che faremo tardi» e poi ha estratto questo enorme posacenere di vetro, e a vederlo mi è scappato un ghigno. Lui ha sorriso «Prova tu a beccare il posacenere da cieco» e mi ha tirato un calcio. Mi viene ancora da ridere.

Io gli ho spiegato che non mi piacciono i sigari, perché durano troppo e quando me li fumano davanti mi fanno venire voglia di fumare una sigaretta dietro l’altra. «Per esempio, ne ho appena spenta una, ma ora ne fumo un’altra per colpa del tuo dannato sigaro».

«E che problema c’è?»

«Che fumare è il peggiore dei vizi».

Allora lui fa un respiro profondo, fa un lungo tiro dal sigaro e «avrei molto da ridire su questo. E poi sai cosa si dice di un uomo senza vizi?»

«Che è molto saggio?»

«Che ha virtù incredibilmente noiose».

E vabbè, mi ha convinto e ho accesso la sigaretta. Per un attimo ho temuto che stesse sviando le mie domande per l’ennesima volta, ma dopo questa sententia ha attaccato subito con la spiegazione. «Per capire quelle audiocassette devo raccontarti delle cose. Non mi piace parlare di me, ma ormai ho capito che se non lo faccio finirà che mi estrarrai le informazioni con la forza», ha sorriso, «devi sapere che avevo una bellissima moglie». Io ero un po’ ubriaco e stavo per interromperlo perché… «Lo so, “ma cosa vuol dire bello per una persona cieca?”, se vuoi dopo ne parliamo, è un discorso complesso. In ogni modo siamo stati sposati tantissimo tempo, e lei no, non era cieca, e no, non ho mai visto il suo volto, se diamo a “vedere” il significato che date voi». Effettivamente non ci avevo mai pensato. Siamo così egocentrici. Abbiamo una nostra percezione del mondo e tendiamo a renderla la percezione assoluta delle cose, la percezione giusta, la percezione vera. Ma non è così. Oreste percepisce la bellezza in una maniera diversa, ma estremamente profonda. Più profonda del guardare un albero in autunno e dire «Che bei colori!».

Mi ha raccontato la sua storia mentre fumava il sigaro e sorseggiava il suo distillato di Dio. Sua moglie era una professoressa universitaria e Oreste avrà ripetuto almeno dieci volte che «era infinitamente più intelligente di chiunque altro». È morta quindici anni fa per un infarto. Non hanno avuto figli perché la malattia di Oreste è geneticamente trasmissibile, e non hanno mai avuto il coraggio di rischiare. Le audiocassette sono libri letti da sua moglie e registrati. Sono tantissimi. È un lavoro talmente grande che non riesco nemmeno a concepire la quantità di ore e di amore che sta dentro a quei vecchi nastri. Me ne ha fatti sentire molti. Per trovare quelli che cerca ha un intricato sistema di forme e tasti.

Dopo che sua moglie è morta, Oreste non riusciva più a vivere nella loro casa in città. «Il buio dei ciechi è il silenzio» e la voce che lo aveva accompagnato tutta la vita non poteva più parlare. Allora ha acquistato la casetta dove l’ho incontrato io e da quel momento vive qui. Gli ho chiesto come sia possibile che il dolore della solitudine possa essere curato da ancora maggiore solitudine. E lui mi ha risposto che si sente meno solo tra gli uccelli che cantano tutte le mattine e i caprioli che scorrazzano in giardino piuttosto che tra le automobili e la puzza di cemento. E che senza sua moglie la città gli faceva venire da vomitare. Che in fondo quello che ha fatto lui «non è molto diverso da quello che fai tu quando ti svegli male la mattina perché sei solo ed esci di casa senza lo strumento che ti permette di avere il maggior numero di relazioni nella storia dell’umanità. Anche il cellulare puzza di cemento, ti dà la nausea».

A quel punto io sono rimasto in una sorta di estasi contemplativa, ma lui ha riattaccato, instancabile «Io ti capisco, ragazzo. La cecità ti insegna i pericoli della vista, proprio perché non la hai. Nelle distrazioni costanti l’uomo si logora, si perde. Il vedere vi seduce, vi domina. Ma la realtà che vedete ne nasconde una più profonda in cui ogni elemento è reciprocamente connesso. I profumi, i suoni, i “vostri” colori dialogano tra loro. Sono tutte manifestazioni di significati celati anche ai vostri occhi. Non so se hai visto quella poesia di Baudelaire appesa…».

«Bellissima, ma perché…»

E qua mamma, ti chiedo scusa, ma devo usare un po’ di paroloni, quelli che tu odi, ma sono obbligato. Oreste ha questa visione del mondo basata sulla sinestesia. E ovviamente sa Corrispondenze a memoria perché quella poesia ne è un po’ la sintesi. La sinestesia è la contaminazione dei sensi nella percezione, come percepire la dolcezza di un tessuto o sentire il profumo di un colore. Oreste dice di riuscire a intendere i colori attraverso la musica. Mi ha fatto sentire questo brano di un poema sinfonico di Smetana che rappresenta lo scorrere del fiume Moldava: e riuscivo a vederlo anche io il fiume, mentre ascoltavamo quel vinile. Lo vedevo scorrere placido attraverso Praga per poi gonfiarsi e fuoriuscire dagli argini durante una tempesta. E allora ho capito. Secondo lui vi è questa «unità profonda e buia» in cui tutte le cose sono connesse e che noi pretendiamo di conoscere solo attraverso la vista che ci comanda e ci distrae. «La cecità è la vittoria della conoscenza, permette di concentrarsi su tutto il resto». E secondo Oreste stanno tutti lì i nostri problemi, nei continui stimoli di quei luccichii che vediamo ovunque e verso cui come insetti attirati dalla luce giriamo costantemente lo sguardo. Abbagliati, viviamo altrove, siamo distratti. E allora ci muoviamo disperati nella continua ricerca di qualcosa da guardare, in cui nasconderci per un po’, che ci eviti di prendere in mano ciò che siamo, di conoscerci al di là dello specchio.

Abbiamo parlato di questo, quella sera, io e Oreste. Solo che gli amari erano stati un po’ tanti e non ricordo bene come sia finita la conversazione. Cioè so di essermi addormentato sul divano, ma non so quando. Mi sono svegliato e il mondo mi è caduto in faccia come la saracinesca di un negozio a mezzanotte. Ci ho messo qualche secondo a ricordarmi dov’ero, il sole mi arrivava dritto negli occhi e mi martellava i neuroni. Poi Elettra ha iniziato a leccarmi la faccia ed è stato come farsi la doccia. Oreste era in giardino a spazzare le foglie secche, dice che lo rilassa. «Buongiorno, non mi avevi detto se volevi restare a dormire, ma eri così beato…».

E non avevo la nausea, mamma. Avevo fame, voglia di uscire fuori, di respirare. Ho deciso che sarei rimasto qui per un po’, almeno fino a quando tu non tornavi dalla Germania. Solo che poi io e Oreste abbiamo iniziato a lavorare assieme. Voglio aiutarlo a scrivere un libro che possa diffondere le sue idee. Fra qualche giorno passerò sicuramente da casa, abbiamo quasi finito il primo capitolo.

Spero non ti arrabbierai,

D -

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Daniele Bondioli

Sono laureato in filosofia a Bologna. Scrivo una newsletter: Autarkeia. Vincitore del Myllennium Award 2020 e del Premio Internazionale Europa e Giovani 2019.