I cambiamenti climatici: una crisi complessa

Daniele Bondioli
8 min readNov 7, 2020

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È il 17 novembre 2018: in Francia si accende una protesta popolare destinata a perdurare per molte settimane. Il mouvement des gilets jaunes merita un’attenta riflessione a posteriori per la peculiare scintilla che trasformò in violenza il malumore di una rilevante parte della popolazione francese: una ecotassa per disincentivare l’inquinamento automobilistico.

Le misure fiscali che Macron tentò di attuare miravano a disincentivare l’uso dell’automobile, così da diminuire le emissioni di anidride carbonica. Come è possibile che politiche di mitigazione climatica abbiano ricevuto una così forte opposizione, nonostante i temi ecologici sembrino essere una priorità per i cittadini europei[1]?

Gli avvenimenti che si sono susseguiti in Francia a cavallo tra il 2018 e il 2019 rivelano la complessità intrinseca al tema, e conducono ad una domanda fondamentale: come contrastare la crisi climatica tenendo allo stesso tempo conto della disparità nella distribuzione delle responsabilità, e favorendo la transizione verso un sistema economico più sostenibile che combatta le disuguaglianze?

L’errore delle politiche francesi, che spesso viene commesso nell’affrontare la lotta ai cambiamenti climatici, sta nell’aver approcciato il problema senza considerare il carattere integrale dell’ecologia e della sostenibilità, che vanno osservate e interpretate come un insieme di interdipendenze che toccano tutti gli aspetti della vita umana.

Le politiche di contrasto ai cambiamenti climatici devono affrontare il problema con un approccio multidisciplinare e obiettivi di lungo termine: è per questo necessaria una riflessione che sia sociale, economica e politica.

La società

“Pensa se non avessi mai toccato una sigaretta in vita tua ma fossi costretto ad addossarti i danni alla salute provocati da un fumatore incallito dall’altro lato del pianeta. […] La Finlandia risulta essere il paese più felice al mondo, ed è responsabile di una quantità di emissioni di anidride carbonica 38 volte maggiore rispetto a quella del Bangladesh, paese considerato il più vulnerabile ai cambiamenti climatici. […] Pensa quindi se quel fumatore rimanesse sano e in cima al grafico della felicità e intanto tu avessi un cancro ai polmoni.”[2]

In un suo articolo per la rivista online il Tascabile[3], Alessio Giacometti propone di introdurre nel dibattito sui cambiamenti climatici il concetto di intersezionalità, coniato originariamente da Kimberlé Crenshaw nei suoi gender studies, per evidenziare come diversi vettori delle disuguaglianze sociali, come il sessismo, il razzismo e il classismo, non fossero indipendenti gli uni dagli altri, ma reciprocamente interrelati e sovrapposti. Giacometti scrive che

“si può così parlare di intersezionalità climatica per rendere conto delle disuguaglianze sociali nell’impronta ambientale e, al tempo stesso, nella distribuzione delle conseguenze esiziali della crisi climatica.”

Come l’esplosione dei gilet jaunes ha dimostrato, le ecotasse costituiscono un approccio limitato al tema, e il concetto di intersezionalità aiuta a comprendere il perché. Prendendo come esempio proprio la tassa sulla benzina, Giacometti scrive che

“una delle proprietà macroeconomiche più note dei combustibili fossili è la loro anelasticità, la rigidità della domanda all’aumentare del prezzo. La stragrande maggioranza delle persone impiega infatti l’energia fossile per soddisfare bisogni primari: per molti l’emissione di un chilogrammo di anidride carbonica è questione di sopravvivenza o necessità, per chi è più ricco di velleità”.

Allo stesso modo se ritenessimo opportuno tassare i beni più inquinanti come i viaggi aerei e la carne rossa, non faremmo altro che renderli beni di lusso sottraendone la possibilità di consumo alla fascia meno ricca della popolazione, che è anche quella con la minore impronta ecologica.

Se consideriamo poi le differenze tra nazioni, il problema diviene ancora più lampante: quattro persone su cinque, direttamente colpite dalla crisi climatica, vivono in paesi a basso reddito. Come scrivono Mastrojeni e Pasini nel loro Effetto serra, effetto guerra, nei paesi in via di sviluppo i rischi climatici si combinano con l’instabilità locale: “la fame aggravata dal clima rende gli affamati meno capaci di rimediare alla fame stessa.”[4]

Sia all’interno delle nazioni che nei rapporti internazionali, come lo scrittore Jonathan Safran Foer dimostra con l’efficace metafora sopracitata, gli individui e gli stati con la più alta impronta ecologica devono attuare sforzi maggiori nel contrasto ai cambiamenti climatici, perché maggiori sono le loro responsabilità.

L’economia

“La comunità imprenditoriale ha cambiato opinione: se fino a un po’ di tempo fa temeva che decarbonizzare le proprie attività avrebbe iniettato costi aggiuntivi, eroso i profitti, intaccato la competitività, e magari depresso il ciclo economico nel suo complesso, oggi è invece dell’idea che la transizione a un’economia verde rappresenti un’opportunità di espansione e un’ancora di salvezza per un’economia altrimenti votata alla paralisi.”[5]

Il lungo periodo di bassa crescita economica e di instabilità finanziaria degli ultimi anni è stato definito stagnazione secolare[6], cioè un periodo caratterizzato da una crescente propensione al risparmio e da un declino degli investimenti.

Su questa situazione precaria incombono i moniti di numerosi studi[7] che informano gli investitori globali del pericolo che migliaia di miliardi di dollari di asset legati ai combustibili fossili divengano stranded assets[8], cioè beni che si svalutano prima che il loro prevedibile ciclo di vita giunga a termine e quindi non in grado di ripagare i capitali in essi investiti. Questa trasformazione potrebbe attuarsi in pochi anni a causa di quella che Joseph Schumpeter chiamerebbe una distruzione creativa[9], cioè un processo di cambiamento improvviso determinato dall’ingresso nel mercato di tecnologie concorrenti più efficienti, e quindi più economiche: il declino costante del costo dell’energia solare ed eolica, che è già in corso e a una velocità notevole[10], sembra preludere a tale scenario.

Ma è proprio dal mondo della sostenibilità che deve provenire l’iniezione di dinamismo economico necessaria per uscire dalla palude: la trasformazione dei processi produttivi in favore di modelli green e la modernizzazione delle infrastrutture si rivelano imprescindibili, oltre che per le motivazioni di salvaguardia ambientale, anche per riabilitare un sistema statico verso quella che è stata definita una terza rivoluzione industriale, in grado di creare nuova ricchezza e sana occupazione.[11]

Anche dal punto di vista finanziario gli investitori sembrano muoversi in questa direzione, basti osservare il numero incredibilmente crescente di green investments che hanno raggiunto il valore di 30.7 trilioni di dollari e sono cresciuti del 37% dal 2016 ad oggi[12]. La transizione ecologica si sta trasformando in un’opportunità: la sostenibilità produttiva e l’approvvigionamento da fonti rinnovabili deve fuoriuscire dal confine della responsabilità sociale d’impresa e diventare il faro a guida dello sviluppo imprenditoriale.

La politica

Nell’ecologia politica degli ultimi anni ha prevalso la linea della diplomazia climatica, cioè l’idea per cui “l’umanità dovrebbe superare le proprie divisioni geopolitiche attraverso patti ecologici e cooperazione internazionale”[13]. Questo modo di affrontare la crisi è stato definito una “sconfitta”[14]: dopo tre decadi di conferenze climatiche, accordi e protocolli internazionali con innumerevoli dichiarazioni di intenti, il 2019 è stato il secondo anno più caldo mai registrato[15]. Nonostante le movimentazioni civili e l’ascesa di green parties in molte nazioni europee, la diplomazia climatica continua ad apparire sterile.

Come convincere la politica ad agire concretamente? Come ricordano Pasini e Mastrojeni[16], nella “teoria della soluzione dei conflitti” le analisi “vengono razionalizzate a questioni di interesse”, mentre l’etica è considerata un elemento irrazionale. Si coglie facilmente il motivo per cui la diplomazia climatica non sta ottenendo risultati: le questioni etiche non influenzano le potenze politiche. È indispensabile quindi porre il problema da una diversa prospettiva.

È evidente che i poderosi flussi di migranti dell’ultimo decennio hanno costituito un fattore destabilizzante per molte democrazie occidentali, in cui si sono accesi forti malumori sociali. Favoriti da retoriche xenofobe e populiste che fomentano le paure delle persone, su di essi si sono innestati pericolosi circoli viziosi che sono sfociati, in alcuni casi, persino ad una contaminazione dello stato di diritto.[17]

Le varie stime prevedono un numero di migranti climatici nell’ordine delle centinaia di milioni[18]. Il centro studi tedesco Adelphi[19] ha rilevato che sono 79 i conflitti che possono essere ricondotti a cause climatiche, ed è stato inoltre dimostrato il legame tra cambiamenti climatici e migrazioni, dovuto soprattutto al peggioramento delle rese agricole[20]. Traendo le conseguenze che questi dati sembrano preannunciare, in uno scenario business as usual ci ritroveremo in una situazione internazionale sempre più liquida, in cui foltissimi flussi di persone fuggiranno da insicurezza alimentare, disastri climatici e innalzamento dei mari.

È interesse delle nazioni evitare che questo accada: se gli scenari dipinti in precedenza dovessero divenire realtà, nel mondo interconnesso e interdipendente in cui viviamo, non vi sarebbe luogo della Terra non sconvolto da gravi conseguenze.

Conclusione: e l’individuo?

Dopo aver trattato il tema ecologico in maniera integrale, proponendo prospettive innovative con cui osservare e interpretare i cambiamenti climatici, è lecito domandarsi quale possa essere il ruolo del singolo individuo su un terreno così ampio e complesso. Il cambiamento più importante che deve attuarsi in ognuno di noi è profondo e sottile, ma potenzialmente rivoluzionario.

A partire dalla rivoluzione scientifica del XVII secolo, e in particolare dalle idee di Francis Bacon, l’essere umano iniziò a guardare la natura come ad un ricettacolo di risorse a disposizione dell’uomo, volte soltanto a migliorare le sue condizioni materiali di vita[21], nonostante l’umanità rappresenti solo lo 0,01% della vita sulla terra.[22] L’errore più grande che noi occidentali possiamo compiere, inevitabilmente eredi di questa concezione, consiste nel pensare che questo sia l’unico modo con cui l’uomo può interpretare la natura. Per gli antichi l’uomo era destinato a vivere nel mondo[23], non a sfruttarlo o a correggerlo: in particolare, i greci, affascinati dalla misteriosa complessità della natura, ritenevano che la tecnica umana non avrebbe mai potuto raggiungere la perfezione del mondo naturale, nei cui meccanismi non ci si doveva intromettere.

Da Bacon in poi, il mondo è diventato per noi una miniera, un fondo al quale attingiamo senza prudenza; e il risultato di ciò è che noi alteriamo le armonie naturali, coi rischi che stiamo imparando a conoscere. Senza la pretesa di recuperare l’anacronistica concezione estetico-morale dell’antichità, è comunque indispensabile riflettere sul modo con cui osserviamo il mondo in cui ognuno di noi nasce, smettendo di dare per scontato che la natura esista solo al fine di un nostro opulento e lussuoso sostentamento.

Citazioni

[1] https://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/20191129IPR67710/eurobarometro-lotta-al-cambiamento-climatico-la-priorita-per-il-parlamento

[2] Pag.183, Possiamo salvare il mondo prima di cena.

[3] https://www.iltascabile.com/societa/ecologia-politica/

[4] Pag.41, Effetto Serra, effetto guerra.

[5] Pag.151, Effetto Serra, effetto guerra.

[6] https://st.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-03-10/ecco-cos-e-stagnazione-secolare-e-perche-ci-fara-male-171825.shtml?uuid=ACyLaplC

[7] https://www.greenbiz.com/article/growing-concern-over-stranded-assets

[8] https://carbontracker.org/terms/stranded-assets/

[9] http://www.treccani.it/enciclopedia/joseph-alois-schumpeter_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/

[10] https://www.irena.org/-/media/Files/IRENA/Agency/Publication/2019/May/IRENA_Renewable-Power-Generations-Costs-in-2018.pdf

[11] Pag.17, Un Green New Deal globale.

[12] https://www.bloomberg.com/graphics/2019-green-finance/

[13] https://www.iltascabile.com/societa/ecologia-politica/

[14] https://www.iltascabile.com/scienze/riscaldamento-globale-analisi/

[15] https://www.nytimes.com/2020/01/08/climate/2019-temperatures.html

[16] Pag.161, Effetto serra, Effetto guerra.

[17] https://www.eunews.it/2020/01/16/strasburgo-ungheria-polonia-condizione-dello-diritto-deteriorata/125245

[18] https://www.ilpost.it/2019/09/21/migranti-climatici/

[19] https://www.adelphi.de/en/publication/ecc-factbook

[20] https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0095069616300882

[21] Pag.231, Storia materiale della Scienza.

[22] Pag.92., Possiamo salvare il mondo prima di cena.

[23] Pag.128, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione.

Bibliografia

- Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Alexandre Koiré, Einaudi, Torino 2000.

- Effetto serra, effetto guerra, Grammenos Mastrojeni e Antonello Pasini, Chiarelettere, Milano 2020.

- Possiamo salvare il mondo prima di cena, Jonathan Safran Foer, Guanda, Milano 2019.

- Sicurezza Globale, Paolo Foradori e Giampiero Giacomello, il Mulino, Bologna 2014.

- Storia materiale della scienza, Marco Beretta, Carrocci, Roma 2018.

- Un Green New Deal globale, Jeremy Rifkin, Mondadori, Milano 2019.

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Daniele Bondioli

Sono laureato in filosofia a Bologna. Scrivo una newsletter: Autarkeia. Vincitore del Myllennium Award 2020 e del Premio Internazionale Europa e Giovani 2019.